Sotto la guida di un anziano professore mi dedicai ad apprendere tutto ciò che potevo sugli umani, la loro cultura, la loro storia… scoprii che c’erano popoli umani diversi in ogni parte del mondo, ognuno con una sua storia e cultura differenti. Era tutto estremamente affascinante.
Quel maestro, che ricordo ancora oggi con affetto, non si stancava delle mie domande, non pensava che ci fossero argomenti che non avrei dovuto approfondire, diceva che se ero in grado di capire qualcosa allora era mio dovere capirla.
Quelli furono anni abbastanza piacevoli, trascorrevo praticamente tutto il tempo in biblioteca e conobbi persone che avevano la mia stessa voglia di imparare, di capire. Era stimolante, mi sembrava di avere finalmente accesso a tutta la conoscenza del mondo.

Appresi, e la mia sorpresa fu enorme, che Helm’s Hold in realtà era soltanto una piccola cittadina e che c’erano altrove città umane enormi con templi e istituti pieni di ogni genere di conoscenza. L’idea mi faceva girare la testa, immaginavo quante situazioni avrei potuto osservare, quanta vita brulicante in strade doppie da farci passare tre carri, palazzi immensi pieni di tesori e tutte le razze mescolate in un unico ambiente. La mia fantasia galoppava veloce, per fortuna il mio paziente maestro correggeva la rotta di tutti i voli pindarici che mi portavano troppo lontano dalla realtà.

Dopo alcuni anni, appresi di aver conseguito una laurea e un dottorato, senza neanche accorgermi di avere profuso un particolare impegno in nessuna di queste attività. Il maestro ne era contento perché sosteneva che la mia genuina sete di sapere era il motore che dovrebbe muovere ogni creatura vivente, ma sosteneva che quei titoli mi avrebbero permesso di trovare un buon lavoro.

L’idea di lavorare mi piaceva, tuttavia non sapevo di cosa si trattasse: tra gli elfi i compiti erano suddivisi in base alle necessità, non c’era un vero e proprio concetto di “professione”: io avevo ricevuto un addestramento di base e delle nozioni di sopravvivenza nel bosco, ma non essendo particolarmente versato nell’erboristeria o nelle occupazioni druidiche di mia madre non avevo pensato di seguire le sue orme. In realtà non avevo alcuna idea di cosa fare della mia vita.

Mia madre era felicissima che avessi finalmente mostrato interesse in qualcosa e avessi studiato con profitto, mi fece appendere al muro le carte che attestavano i miei titoli e, sebbene non sapesse esattamente cosa dovessero indicare, ne andava molto fiera.
Molto probabilmente avrei continuato quella che chiamavano “carriera universitaria” se non fosse arrivato il momento per il mio buon maestro di lasciare questo mondo: era già anziano quando lo avevo conosciuto e circa dieci anni dopo lasciò serenamente la vita. Non ero sconvolto, conoscevo la morte e non mi ha mai fatto paura. Rispetto agli altri elfi, in realtà, ne sono molto meno inorridito: ho notato che è un argomento che preferiscono non affrontare, non lo capiscono. Io per qualche ragione lo sento più familiare, invece. Non posso dire di conoscerla davvero, la morte del mio maestro era la prima a cui assistevo, ma in qualche modo non mi era estranea.
Il maestro si era affezionato a me e riteneva che avrei potuto fare grandi cose: mi aveva scritto una lettera di raccomandazione per l’università di Neverwinter, la capitale dello stato in cui ci troviamo, me la consegnò sul suo letto di morte dicendo che avrei avuto molte più opportunità in una grande università come quella. Mi disse di non smettere mai di imparare e gli promisi che lo avrei fatto.
È stata la prima e ultima persona a vedere in me soltanto una mente, a relazionarsi con me senza alcun secondo fine o timore. Ne conserverò sempre la memoria come un tesoro.

Nonostante l’importanza che avesse rivestito per me, tuttavia, la lettera rimase nel cassetto. Non moltissimi anni prima c’era stata una violenta eruzione del vulcano di Neverwinter, che aveva causato moltissimi danni alla città e un considerevole flusso di profughi. Pensai di aspettare che la situazione si normalizzasse (anche perché non sapevo come dire a mia madre che sarei andato a studiare in un’altra città), ma non appena le cose sembravano farsi più tranquille ecco che i dintorni iniziarono a essere invasi da orchi e gli dèi solo sanno che altro. Mamma non sapeva più dove sbattere la testa per gestire il bosco, un sacco di gente morì e la città fu blindata. Lo presi come un segno: era meglio restare dov’ero. Il fatto che per gli elfi fossi ancora tecnicamente un minorenne non inficiava minimamente la mia decisione, ovviamente.

In tutto ciò, la mia lungimirante genitrice pensò bene di avere un altro figlio: già, ho un fratello minore. La notizia mi riempì di gioia, inizialmente non volevo avere niente a che fare con l’intera faccenda, sperando che se non l’avessi degnata di attenzione sarebbe sparita.

Purtroppo non sparì, e in men che non si dica mi ritrovai in braccio questa specie di capretta paffuta. Ok, era carino, lo ammetto, ma io non volevo un fratello.
La capretta, lo chiamavo così perché suo padre è un satiro della corte d’Autunno (mia madre ha decisamente gusti bizzarri in fatto di compagni, ma cosa voglio saperne io?), era un piccolo e vivace piper (si chiamano così i mezzi satiri) che finalmente sembrava rendere felice mia madre. Lei ha un carattere solare ed entusiasta, io sono praticamente l’opposto, non ci siamo mai capiti molto. Flor, invece, il bambino, era esattamente come lei (più un po’ della tracotanza paterna tipica dei satiri). A seguito della sua nascita mia madre è rimasta per un bel po’ alla corte, cosa che vidi con favore visto che per quanto mi riguardava poteva anche trasferircisi e lasciarmi in pace. Ora aveva la sua famiglia felice, io non c’entravo niente con quel luminoso e fatato quadretto.

Quelli sono stati anni turbolenti, ma niente in confronto agli ultimi venti circa: lo spartiacque del cataclisma. Sapete tutti di cosa sto parlando, quindi non mi dilungherò sulla devastazione, la piaga, le persone e creature mutate… di solito mi piacciono le situazioni movimentate, ma quella era davvero troppo brutta.
La città cambiò volto: dove prima c’era un viavai di persone ora c’era diffidenza e chiusura, prima le altre razze erano guardate forse non con gioia ma almeno con curiosità o come opportunità commerciali, ora ogni diverso era un pericolo.

Non è stato un periodo facile, non mi va di parlarne, anche perché non è successo niente di interessante.
A seguito del cataclisma la situazione si fece difficile sia in città che nel bosco: qualche anno prima i due capi delle fate avevano stipulato una tregua storica, che si pensava impossibile da realizzare, perché il bosco era un luogo di conflitti per le fate, altre corti si erano rivolte verso di loro per darsi battaglia e le due corti rivali avevano dovuto combattere assieme.
Tutto ciò comunque venne sconvolto dal cataclisma: le fate non potevano uscire dalle bolle per paura delle zone di magia selvaggia, molte erano morte o mutate e gli umani, tanto per cambiare, avevano stabilito che la colpa di tutti quegli sconvolgimenti magici doveva essere dei loro vicini fatati, che fino a quel momento non avevano creato troppi problemi ma che per qualche ragione dovevano essere impazziti.

Dal canto loro le fate erano fermamente convinte che gli umani in qualche modo avessero rotto la magia e che tutto questo sconvolgimento fosse causato da loro. Se non fosse stato che non avrebbero saputo trovarsi i lacci ai mocassini avrei potuto anche dar loro ragione, ma avevo già capito che la gran parte degli umani è sostanzialmente stupida.

Un evento cataclismico di quella portata non poteva essere stato semplicemente causato da una manciata di azioni e mettersi a cercare i colpevoli era un esercizio futile, ma sembrava che tutti ne traessero un gran conforto.
Ad ogni modo, anche quella bufera passò e io piano piano ricominciai a uscire di casa. Molte persone mi conoscevano da sempre, nonostante ciò, ero guardato con diffidenza e sospetto. C’erano state molte vittime, feriti e ammalati, e il sanatorio lavorava senza sosta per soccorrere quelli colpiti dalla piaga. Come se tutto questo non fosse bastato, di notte non si dormiva più: era diventato impossibile avere un sonno ristoratore, stranamente valeva anche per gli elfi, ero tormentato dagli incubi come mai prima e diventava difficile distinguere la realtà dai sogni. Una sacerdotessa calishita si era messa a vendere delle bamboline che aiutavano a dormire bene, mia madre ne comprò un sacco, ancora ne ho una accanto al cuscino.
Con i nervi di tutti a fior di pelle e il riposo rovinato, le risse erano all’ordine del giorno, anche perché gli helmiti erano peggiorati di molto e diventati una banda di prepotenti. Più di una volta mi sono ritrovato con la mano alla catena mentre tornavo a casa perché mi imbattevo in una pattuglia.

A tal proposito, non so se valga la pena menzionarlo, ma ho un’arma particolare che è con me da sempre e non ho idea di come io l’abbia avuta. Già, strano… So anche che ha un nome, so come usarla, mi sembra un prolungamento del mio braccio, eppure non riesco a ricordare niente di come io l’abbia ottenuta. Mia madre dice che l’ho sempre avuta, e scrolla le spalle. Grazie, mamma.

In quel periodo ho iniziato a non sentirmi più al sicuro in città, anche perché capitava un po’ troppo spesso di tornare a casa pieno di lividi, per cui chiesi e ottenni di poter avere una casa tutta per me fuori dalle mura. Avevo un paio di cani all’epoca, adotto trovatelli che nessuno vuole, e mi sembrava una soluzione adeguata a tutti. Mia madre pianse perché ero diventato grande o qualcosa del genere, ma acconsentì; quindi, mi sono trasferito nella mia casa attuale.
Mi piace, è lontana dalle persone e vicina al bosco, i cani (che ora sono 6) hanno spazio, non mi manca nulla.
Continuavo a frequentare la città, sia per ragioni di utilità, sia perché stavo cercando di avere un po’ di vita sociale: avevo conosciuto dei ragazzi elfi, due maschi e una femmina, figli di famiglie elfiche che vivevano in città, amici di mia madre. Erano ragazzi un po’ semplici, ma a posto, o così pensavo. Una sera eravamo andati in taverna a bere una birra e non mi sentivo molto bene: dal cataclisma mi capitava spesso di avere mal di testa o che mi facesse male il tatuaggio.
Credo di non aver menzionato neanche questo: ho un tatuaggio, apparentemente da sempre. Già, indovinato: non so chi me lo abbia fatto, cosa rappresenti e perché ce l’ho. Avrei pensato a una cosa druidica, molti wood elf hanno tatuaggi simbolici, se non fosse che questi sono fatti durante riti di passaggio che avvengono alla maturità. Io ricordo di averlo da sempre, ed è veramente strano tatuare un bambino.
Anche qui: mia madre sostiene che io sono nato così. Sarà…

Comunque, il mio tatuaggio reagisce alla magia: sì, so cosa state pensando, ed è quello che mi ha fatto finire nei guai.
Dicevo: eravamo in taverna a parlare del più e del meno, quando il mio tatuaggio si mette a bruciare, era veramente un dolore fastidioso. Dico quindi ai ragazzi che sarei tornato a casa perché non stavo bene e uno di loro si offre di accompagnarmi, apparentemente preoccupato. Accetto e ci avviamo verso casa. Mentre camminiamo cerca di informarsi sul mio stato ed io, reso meno attento dal dolore al petto e dal mal di testa che avevo da quella mattina, gli confido di avere un dolore causato probabilmente da una ferita che aveva iniziato a bruciare. Non ho menzionato il tatuaggio, ma lui deve aver pensato subito a una spellscar, perché notai il cambio di espressione. Sembrò comprensivo, comunque, e per un po’ continuammo a camminare. Con il senno di poi, è assurdo che io non abbia dato peso al suo respiro nervoso, agli occhi che saettavano a destra e a sinistra, alla conversazione fintamente disinvolta.
Incrociammo una pattuglia, io feci solo caso all’assenza dei soggetti più facinorosi e non mi preoccupai, lui invece diventò palesemente nervoso, come se volesse attirare l’attenzione. Infatti, ci fermarono e lui balbettò che io non mi sentivo bene, che forse mi ero ferito… Il piccolo bastardo sapeva benissimo che qualsiasi menzione ad un graffio del c@**o ti faceva finire direttamente al sanatorio, e infatti indovinate chi ottenne un biglietto di sola andata per la casa degli ammattiti? Esatto: il sottoscritto.

Mi portarono da un dottore, ricordo vagamente un corridoio poco illuminato e delle urla in lontananza, ma forse me le sono immaginate, a quel punto il mal di testa era insopportabile e credevo di stare per svenire. Crollai sulla sedia in un ufficio elegante, sentii il comandante della pattuglia dire qualcosa tipo “sospetta spellscar” e “figlio della druida”, ma le urla nella mia testa erano troppo forti. Poi sentii una mano sulla mia spalla e le urla cessarono. Avrei potuto piangere per il sollievo. Alzai lo sguardo e vidi quello che doveva essere il dottore: era un umano di mezza età, dall’aspetto rassicurante, molto calmo e posato. Mi sorrise e mi disse di non preoccuparmi, che era lì per aiutarmi e avrei dovuto solo spiegargli cosa sentivo.
Provai a dirgli che il mio amico si era solo suggestionato e che stavo male perché non avevo dormito, ma non la bevve. Non si arrabbiò, però, anzi mi disse che capiva se non mi fidavo, perché si sentivano tante storie poco rassicuranti sulla piaga e le sue conseguenze, ma che proprio per quello dovevo essere sincero con lui, così da evitare eventuali peggioramenti.
Capitolai e gli spiegai del mio mal di testa costante, che nonostante tutti gli intrugli di mia madre non andava via, e che era drammaticamente peggiorato quando ero entrato lì dentro, in un modo in cui non lo avevo mai sperimentato fino a quel momento. Mi chiese dei miei poteri, sembrava interessato al modo in cui manifestavo magia in modo innato. Non era minaccioso o diffidente, al contrario, era genuinamente curioso. Solo allora notai che portava il simbolo degli oghmiti e mi rasserenai: negli ultimi anni non avevo più potuto frequentare la biblioteca perché si trova all’interno del complesso della cattedrale, e gli helmiti l’avevano interdetta praticamente a tutti. Non conoscevo quindi i nuovi maestri, scoprire che il dottore era uno di loro mi fece sentire meglio.
Notò il mio cambio espressivo e mi chiese se conoscessi il suo ordine, allora iniziai a parlare dei miei anni da studente e sembrò molto compiaciuto. Alla fine di quella chiacchierata mi disse che non ero un paziente che necessitasse un ricovero, i miei poteri innati subivano delle interferenze dalla magia impazzita ma io stavo bene. Il mio tipo particolare di magia, però, avrebbe potuto mettermi a rischio di subire effetti negativi da quelle interferenze, per cui voleva tenermi sotto controllo e condurre una terapia preventiva per proteggere la mia mente. Mi avrebbe ricevuto ogni settimana nel suo studio alla cattedrale, non era necessario che tornassi lì al sanatorio.
Devo ammettere che ne fui contento: era una persona così piacevole e intelligente che vidi con favore la possibilità di condurre di nuovo delle conversazioni stimolanti, finalmente avevo nuovamente a disposizione un maestro da cui avrei potuto imparare qualcosa.

In effetti fu così per diverso tempo: andavo da lui e parlavamo di tutto, sembrava in grado di aprirmi porte verso conoscenze ancora inesplorate. Era diverso dal mio vecchio maestro, lui sembrava non avere limiti. Diceva spesso che i confini della conoscenza sono sempre un po’ più in là di quello che si pensa e per questo non bisogna avere paura dell’inesplorato.
Era estremamente affascinante parlare con lui, dimenticai presto di essere un paziente, anche perché non mi faceva sentire così: mi trattava piuttosto come un allievo, alle volte come un pari, come se anche lui avesse difficoltà a trovare qualcuno con cui avere una conversazione intelligente.
Grazie alle sue protezioni i miei dolori svanirono, e dopo mesi arrivai persino a rivelargli del tatuaggio. Lui aveva capito subito che c’era un’altra fonte del mio dolore, ma non mi aveva pressato: disse che sapeva che quando sarei stato pronto gliene avrei parlato. Il rispetto che mostrò nei miei confronti mi colpì incredibilmente; perciò, feci una cosa che reputavo impensabile: non mi limitai a parlargliene, glielo mostrai.
Era un gesto che sentivo contrario ad ogni buonsenso, ma lo feci lo stesso. Non mi ero mai sentito così nudo come in quel momento, eppure mi fidavo di lui. Vedere come osservava affascinato il disegno mi diede un piacere che non saprei spiegare e che non ho mai più provato.
Dopo quel giorno, mi sentivo legato a lui, c’era qualcosa di intangibile che ci univa.
Nel frattempo, in città erano arrivati dei nuovi studiosi, che incontravo quando mi recavo dal dottore. Uno in particolare sembrava avere molto interesse per me, infatti mi fermò durante una delle mie sortite in biblioteca per recuperare dei libri, dal momento che potevo tornarci.
Era un tiefling, non si vedeva molto in città per ovvie ragioni, e portava il simbolo di Tyr ed un altro che non conoscevo. Disse di essere un azuthiano e di occuparsi di tutelare persone come me: non umani accusati di ogni genere di nefandezza. Il discorso mi interessava, perciò mi diede un biglietto da visita con uno strano simbolo e mi disse di vederci in una taverna. Ci andai e scoprii l’esistenza del Talamasca: una sorta di società semi segreta di azuthiani che tutelava i perseguitati per ragioni magiche e recuperava occasionalmente oggetti sequestrati. Mi sembrava tutto molto nobile, ma non riuscivo a fidarmi completamente dal momento che avevo notato che mi faceva spesso domande sul dottore. Capii che lo tenevano d’occhio e che non mi avevano contattato a caso, quindi stetti al gioco in attesa di raccogliere altre informazioni.

Le cose andarono avanti così per un altro paio di mesi, finché non accadde l’impensabile: mio fratello in libera uscita dalla bolla che decise di venire a trovarmi e farsi un giro in città, con le sue belle corna dorate in bella vista.

Inutile dire che venne arrestato in meno di due ore e condotto al sanatorio. Dapprima non mi preoccupai molto, dal momento che ero convinto di poterne chiedere il rilascio al dottore, ma quando lo feci scoprii che la procedura in questo caso non era la stessa. A quanto pareva mio fratello aveva una spellscar e doveva essere trattato, ma io ero piuttosto sicuro che non ne avesse nessuna. I satiri vanno sempre in giro nudi e avevo dovuto inseguirlo per fargli mettere una camicia quando era arrivato, perciò mi sembrava davvero molto strano quello che mi stava dicendo.

Lui sembrava costernato e mi assicurò che avrebbe fatto il possibile per curare mio fratello, ma io non potevo lasciarlo lì dentro, era solo un bambino.
Contattai Jak, il tiefling, e gli spiegai la situazione. Si offrì di aiutarmi, ma naturalmente ne approfittò per chiedermi finalmente quello che voleva: informazioni sul dottore. Mi spiegò che lo tenevano d’occhio perché avevano il fondato sospetto che lui fosse dietro a degli esperimenti condotti sulle persone spellscarred che invece di venire curate venivano usate come cavie. Io gli dissi che lui era al di sopra di queste cose e che gli interessava solo la ricerca, ma lui mi rispose che per un uomo come lui quella era da considerarsi ricerca e in cuor mio non sapevo se avrei potuto obiettare a quell’affermazione. In ogni caso il mio sciocco fratellino era la priorità in quel momento, perciò accettai le sue condizioni e diventai la sua talpa.

Riuscirono a tirare fuori Flor dal sanatorio, a quanto pareva ora aveva davvero una spellscar, ma non l’aveva quando era entrato…
Per riportarlo nel bosco usammo un passaggio segreto che si trova in una delle taverne che sbuca direttamente nel territorio degli unseelie e la fortuna volle che ci trovassimo di fronte addirittura il loro capo. Era il sileno più grosso che avessi mai visto, emanava una potenza inaudita, un suo gesto avrebbe potuto spazzarci via: ovviamente mio fratello doveva fare il cascamorto.

Ce l’ha nel dna, lui ci prova con ogni cosa si muova.
Era fatta, pensavo che saremmo morti: per fortuna il sileno non era così terribile come raccontavano e non ci uccise. A quel punto siamo stati tratti in salvo dal capo della corte d’Autunno, un sidhe molto bello ed elegante dai modi pacati, che ci riportò alla corte.
Riconsegnato il ragazzino, finalmente potevo tornare a casa, provato dallo spavento e da tutte le nuove informazioni che avevo appreso.
Non potevo fare a meno di chiedermi perché il dottore mi avesse detto quelle cose: poteva davvero essere coinvolto in quegli affari loschi come diceva Jak? Poteva essere stato lui a mettere una spellscar su Flor?
Una parte di me non voleva crederci, un’altra lo reputava tranquillamente possibile. Istintivamente portai una mano al petto, mi sembrava che il tatuaggio scottasse.
